“La città dei vivi” al Teatro Fontana – Recensione

È di forte impatto lo spettacolo “La città dei vivi” che Ivonne Capece ha tratto dall’omonimo romanzo di Nicola Lagioia pubblicato nel 2020 e che ha rappresentato evento di punta del cartellone 2025/26 del Teatro Fontana di cui la Capece è direttrice artistica. Lo spettacolo, ben lontano dal terminare la sua programmazione, è ora in tournée nei teatri italiani (domani sarà presente al Teatro Astra di Torino dove resterà fino al 14 dicembre, per proseguire poi in altre città secondo il calendario indicato in calce). La vicenda si ispira all’omicidio del ragazzo Luca Varani perpetrato nella Roma del 2016 e senza motivo apparente da due suoi coetanei, Marco Prato e Manuel Foffo. Rispetto al romanzo Ivonne Capece non ha ritenuto necessario dare ai protagonisti della storia il loro nome reale e neanche altri di pura invenzione perché il suo intento è stato quello di evitare una messa in scena di genere documentaristico, configurandola invece “come opera artistica, espressione del diritto alla libertà creativa” il cui fine era quello di esplorare temi universali in cui, sono le sue parole, “ogni elemento narrativo mira a manipolare la vicenda specifica per raccontare una storia universale, proposta in chiave poetica, simbolica e provocatoria.”

Un omicidio, quindi, avvenuto senza un movente che in qualche modo lo potesse giustificare sia pure nella mente degli assassini ma semplicemente eseguito per il gusto di farlo e sotto gli effetti dell’alcol e della droga. Di omicidio come atto gratuito esistono esempi sia nelle cronache locali, in particolar modo quelle dei paesi industrializzati, sia nel campo letterario e il primo che mi viene in mente è quello commesso da Lafcadio, personaggio de “I sotterranei del Vaticano” di André Gide, mentre, per arrivare a epoca più vicina, il più noto avvenne a Chicago nel 1924 in cui la vittima era un ragazzo quattordicenne di famiglia benestante e a ucciderlo furono due ricchi studenti universitari, uno dei quali supposto omosessuale, che passarono alla cronaca come protagonisti del “caso Leopold e Loeb”. L’assassinio sarebbe stato a scopo di rapina ma i due, quando furono scoperti, dichiararono che il crimine era stato un esercizio intellettuale per dimostrare che loro erano l’incarnazione del superuomo descritto da Friedrich Nietzsche e avevano ucciso per noia. Furono condannati all’ergastolo e uno dei due morì ferito a morte dal compagno di cella. Tra le diverse opere narrative e cinematografiche che trattarono questo caso è da menzionare il romanzo-verità di Meyer Levin del 1956 dal titolo significativo di “Compulsion”.

Quello che colpisce subito al momento dell’entrata in sala è il palcoscenico ingombro di statue, due delle quali sovrastanti un frigorifero e una lavatrice, segno di una continuazione o di conservazione di un passato che si riflette nel presente tale da immettere, per dirla alla McEwan, in una sorta di angoscia metafisica portatrice di un clima disturbante che poi sarà il principale elemento delle azioni che seguiranno. La prima di queste è rappresentata da un anziano che abbraccia due dei protagonisti della vicenda. La sua funzione è quella di un padre che usa un atteggiamento protettivo la cui immagine affonda in un’antichità patriarcale dove la figura materna è assente, e lo sarà per tutta la durata dello spettacolo tranne poche brevi scene che si vedranno negli ologrammi che si staglieranno ai lati della scena in diversi momenti. Il padre protettivo dell’inizio si sdoppierà poi in tre figure diverse, tutte interpretate da un eccellente Sergio Leone: quelle dei genitori dei due assassini e quella del padre della vittima. I primi due, nonostante la loro presenza fisica ma moralmente assenti, superato l’orrore della notizia su quanto è accaduto, invece che richiamare i figli alle loro responsabilità, si preoccuperanno di trovare giustificazioni e appigli per sottrarli alla giustizia mentre al padre della vittima, accanto alla richiesta delle pene da infliggere ai colpevoli, non resterà che sfogare il suo dolore per la perdita subìta.

Il fatto efferato dell’omicidio non viene rappresentato all’inizio ma viene rimandato alla fine che costituisce visivamente un momento eclatante e altamente il più drammatico. Prima di questo si assiste a quanto era avvenuto nel “dopo” e i protagonisti si muovono nelle loro angosce e nei loro turbamenti. Il ragazzo più debole, quello che era stato coinvolto dall’amico più maturo e con il quale aveva avuto un rapporto di natura omosessuale più per accondiscendenza che per naturale inclinazione, è impaurito che si venga a sapere del rapporto sessuale avuto con l’amico che “macchierebbe” la sua immagine di uomo eterosessuale piuttosto che delle conseguenze legali alle quali dovrà andare incontro. Meno impaurito, anzi fiero delle sue gesta, è l’altro che appare più sicuro di sé. La vittima si vedrà mentre trascina con una fune la statua del Mosè di Michelangelo, fatica vana perché non riuscirà, pur ripetendo l’azione, a portare a termine il compito. Una sorta di Sisifo che, anziché spingere il masso verso la cima, si trova a tirarlo, e comunque, come per il personaggio mitologico, è simbolo di uno sforzo che si rivelerà inefficace e operato per sottrarsi alla violenza dei suoi assassini ma anche metafora dell’inutilità di opporsi all’operarsi del male insito nella natura umana. Questo mentre Roma, la cui eternità è rappresentata dalle statue di personaggi mitologici mischiate a elementi dell’oggi, ne osserva, indifferente, il compimento.

Arriva alla fine il fatto tragico che Ivonne Capece ha voluto mostrare in tutta la sua crudezza, con una performance che vede i due assassini che si accaniscono con la massima brutalità sul corpo della vittima che cerca invano di reagire. Una sequela di corpo a corpo intrisi di polvere di cocaina che stridono con quanto cantato prima, un “Vedrai vedrai” denso di promesse poi tradite. Gli attori, oltre che essere bravissimi nella recitazione parlata, mostrano il loro non comune talento nella prestazione fisica che proprio nel finale raggiunge la massima espressività coinvolgendo emozionalmente il pubblico che non riesce a restare indifferente. Non a caso, racconta la regista, i tre (Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi, Cristian Zandonella) sono stati scelti fra un centinaio di aspiranti e sono stati addestrati con straordinaria cura per raggiungere il risultato di notevole spessore che costituisce il sale più consistente dello spettacolo. Alla parte puramente recitativa di alto livello sono da aggiungere per la migliore riuscita della pièce le invenzioni registiche di Ivonne Capece che vanno dall’affascinante scenografia che si fa essa stessa personaggio parlante non meno delle figure umane e sulla quale agiscono nella loro efficacia le luci dai tagli fortemente parlanti nella variabilità di colorazione, riflessioni degli stati d’animo dei personaggi. Gli ologrammi e i video che riproducono il “fuori” con tutto quello che può rappresentare, non portabile sulla scena pena la perdita dell’effetto emozionante e inedito, sono altro punto inventivo che offre ulteriore smalto all’azione scenica, identificativo, questo, di uno dei “marchi di fabbrica” della Capece. Le figure che vi appaiono sono dei camei recitati da diversi artisti tra i quali spiccano Arianna Scommegna, nelle vesti della madre di uno degli assassini, e Tindaro Granata. Anche il suono elettronico pressante contribuisce a dare ritmo alla messa in scena che non accusa mai momenti di stanchezza.

Uno spettacolo avvincente dal tema che scuote le coscienze dove lo spettatore è chiamato in causa perché riconosce di far parte di quella società i cui valori alla deriva sono sostituiti da una decadenza morale che porta a una violenza senza ritorno. I copiosi applausi del numeroso pubblico presente nella sera in cui ho visto lo spettacolo sono la prova di quanto l’argomento sia arrivato a destinazione. In calce all’articolo sono presenti i crediti degli ideatori e di tutti i collaboratori che hanno reso possibile una messa in scena di enorme valore etico ed estetico.

Visto al Teatro Fontana il giorno 26 novembre 2025

(Carlo Tomeo)

TEATRO FONTANA

LA CITTÀ DEI VIVI

Liberamente tratto dal romanzo di Nicola Lagioia
regia, video e adattamento drammaturgico Ivonne Capece

Interpreti Sergio Leone, Daniele Di Pietro, Pietro De Tommasi, Cristian Zandonella
Interpreti in video Tindaro Granata, Arianna Scommegna, Pasquale Montemurro, Marco Té, Samuele Finocchiaro, Stefano Carenza, Pietro Savoi, Lorenzo Vio, Ioana Miruna, Penelope Sangiorgi, Barbara Capece, Luigi de Luca, Pietro Giannuso, Giuseppina Manaresi, Olmo Broglia Anghinoni
scene Rosita Vallefuoco
assistente alla scenografia Michele Lubrano Lavadera
videomaking e regia video Ivonne Capece
costumi e concept visivo Micol Vighi
sound designer Simone Arganini
assistente alla regia Micol Vighi
assistenti volontari Pasquale Montemurro, Barbara Capece, Luigi de Luca
light designer Luigi Biondi
riprese Antar Corrado
post-produzione video Domenico Parrino
responsabile di produzione Nadia Fiorio
responsabile tecnico Rossano Siragusano
prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale, TPE Teatro Piemonte Europa, Teatri di Bari, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro di Sardegna

Tutte le foto sono di Luca Del Pia

Tournèe:

Torino Teatro Astra – 9>14 dic

Bologna Arena del Sole – 18, 19 dic

Nuoro Teatro Eliseo 13 gen

Bari Teatro Kismet – 24, 25 gen

Napoli Teatro Bellini – 27 gen>1 feb

Categorie RECENSIONI

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