Il mio rapporto con il teatro è sempre stato duplice: la prima volta che vi andai fu con i miei genitori che mi portarono a vedere un’opera lirica: “Tosca”. Avevo quattro anni e ci misi circa un altro anno a capire perché Mario Cavaradossi doveva fingere di morire e invece moriva sul serio, nonostante Tosca lo avesse preventivamente avvisato del fatto che i fucili sarebbero stati caricati a salve, grazie al patto che lei aveva fatto con Scarpia. Mi ripresi a malapena da questa storia per me quasi incomprensibile, malgrado le spiegazioni dei genitori, che la seconda opera fu ancora più terribile: “Macbeth”, e poi vennero di seguito “Turandot”, di cui non capivo la crudeltà, e l’incomprensione dello scambio dei bambini ne “Il Trovatore”. Mai un “Barbiere di Siviglia” o “Un Don Pasquale”, che fortunatamente conobbi più in là con il tempo!
Ero in terza media quando mi fu annunciato che la mia classe sarebbe stata condotta a Teatro a vedere un’opera di prosa dichiarata molto divertente: “La locandiera”. Nonostante la genesi della commedia, raccontata dall’insegnante di italiano io ero molto scettico e temevo che, dopo tante opere liriche giudicate da me truculente, non meritavo il castigo di assistere anche a un’opera in prosa, sia pur dichiarata divertente: da qualche parte c’era sicuramente un trucco.
E invece ci fu una rivoluzione nel mio animo, tanto che decisi che da grande avrei fatto l’attore.
Ma il mio padre severo, che tanto amava la lirica, mi fece togliere subito dalla testa quell’idea per lui balzana.
Dai quattordici anni le mie letture di narrativa passarono quasi impercettibilmente ai testi teatrali più famosi e quando frequentai il primo anno di lettere moderne, mi iscrissi subito a tre seminari di teatro: la commedia dell’arte, il teatro futurista, e uno di critica teatrale.
Finalmente “grande”, pur iniziando a lavorare, non abbandonai le mie letture preferite, né mi lesinai le visite nei teatri più disparati.
Non contento mi piaceva scrivere recensioni che tenevo ovviamente per me e non mi lesinavo di nulla: poteva capitare che una sera vedessi un dramma di Shakespeare recitato nella maniera più classica e il giorno dopo mi deliziavo a uno spettacolo off di Perla Peragallo e Leo De Berardinis. E ora che posso farlo, grazie ai social network, mi sono improvvisato recensore di opere teatrali.
Perché teatro e teatro? Perché, accanto al teatro tradizionale che pur frequento, esiste anche un’altra forma di teatro, quello of, che è la mia passione. Ma ce ne sono ancora di diversi, già la parola “of”, di moda negli anni ’70, è superata. E io sono onnivoro anche se sempre più esigente.
Ora scrivo recensioni degli spettacoli che vedo, ben distinguendo questi miei scritti dalla critica teatrale perché io desidero che la gente venga incuriosita e attratta ad andare a teatro, in quanto capisco la vita degli attori, specie i meno famosi, la passione che impiegano nel loro mestiere, le rinunce alle quali sono a volte costretti. E così le mie recensioni sono scritte per attirare più pubblico possibile, convinto che niente non sia salvabile, anche nella meno accattivante della rappresentazione raccontando qualcosa della trama, senza mai cadere nello spoiler, incuriosendo il lettore fino a portarlo a teatro. Distinguo tra recensione e critica teatrale, specialmente quella più “dotta” che serve solo agli addetti ai lavori e arricchisce (se positiva) il curriculum dell’attore, ma non porta gente a teatro. Anzi non vengono neppure comprese dal lettore comune.
Perciò, viva il teatro e teatro, a Milano sempre ricca di offerte, e, se qualche mia recensione dovesse apparire particolarmente entusiastica, credeteci e correte a verificare quello che ho descritto.