
La capacità di raccontare e raccontarsi con la forza dell’ironia che nasconde una timidezza non ben celata e che è il punto di maggior valore nella narrazione, tale da generare nell’ascoltatore umorismo misto a commozione. È quella posseduta da Paolo Nori in due suoi spettacoli presentati al Teatro Menotti. I temi trattati sono la libertà e la disperazione, argomenti che si toccano da vicino, l’uno essendo un po’ complementare all’altro tanto che, come dichiara lo stesso autore e, in questo caso anche attore, parlare della libertà non può essere un discorso definitivo senza citare e discorrere della seconda che in forme diverse colpisce chi per motivi vari si vede privato della prima. Due tappe, quindi, percorse in due serate dove nella prima Nori, parte dal concetto che la libertà non può essere disgiunta dalla relazione esistente tra noi e chi ci governa e cita il pensiero di Pietro Gori, giornalista e avvocato anarchico della seconda metà dell’800 e inizi ‘900: “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà”. E quindi, partendo dal concetto secondo il quale la teoria dell’anarchia sia fondata sull’idea che l’uomo è buono, per dimostrarne la forza inizia a titolo di esempio a descrivere la vita di due scrittori russi giudicati sovversivi e vissuti nel secolo scorso, emblematici della letteratura sovietica, entrambi vittime della censura e condannati al carcere, il primo per i suoi versi e racconti anti-razionalistici, il secondo per parassitismo: Daniil Charms, arrestato per due volte e poi internato in manicomio dove morì di fame a soli 35 anni, e Iosif Brodskij, condannato a cinque anni di lavori forzati in esilio che, grazie agli interventi di intellettuali anche di fama mondiale e a quelli dell’opinione pubblica, si vide ristretta la durata della pena al periodo già scontato. Di Charms, che Nori chiama con il nome di Kharms dalla trascrizione fonetica del russo Хармс, vengono recitati alcuni godibili racconti brevi come “vecchie che si ribaltano”, “L’uomo rosso di capelli”, “Cosa vendono adesso nei negozi” o “Dissapore” che destano grande ilarità tra il pubblico. Ma oltre a questi due le citazioni di altri scrittori che furono osteggiati e censurati dal regime sovietico non mancano nomi come quello di Anna Achmátova protagonista di un libro che Nori scrisse nel 2023 e che quando fu tradotto in russo la casa editrice Ast non poté fare a meno di operare dei tagli sulle note che l’autore accettò. A tal proposito lo scrittore ne scrive nel suo nuovo libro Non è colpa dello specchio se le facce sono storte: “Immagino che qualcuno penserà che il mio è un atto di sottomissione a un regime dittatoriale” e aggiunge “E va benissimo” E questa conclusione apre la porta a una doppia interpretazione: siamo tutti soggetti in maniera e per cause diverse a una forma di censura? Nori cita Epitteto il quale insegnava che la libertà non dipende da noi ma da dove si nasce e si vive, per cui chi nasce in Occidente crede che essa non c’è in Oriente mentre chi nasce aldilà della cortina di ferro è abituato a pensare che la libertà esiste solo da loro e a tal proposito racconta l’esperienza vissuta quando chiese un visto per l’USA e un altro per la Russia. Il primo gli fu negato mentre il secondo gli fu accettato e la cosa metteva in discussione quella diffusa credenza. Qui Nori, pur ammettendo che il visto gli fu concesso grazie al suo mestiere di traduttore dal e al russo, non può fare a meno di dichiarare che lì aveva visto esempi di libertà individuale che si traducevano in mancanza di disoccupazione, di licenziamenti, di sottomissione ai propri superiori, di non grossi disparità di stipendi, cose che qui da noi sono abbastanza diffuse. Qui in Occidente invece “la libertà ce l’hai, te l’han data, te l’han regalata” e non c’è bisogno di esercitarla, ma quando lo vuoi fare è passato tanto tempo che ormai i muscoli si sono inflacciditi e non la puoi più praticare. Nori si ostina a parlare della Russia, nonostante in Occidente quel paese sia visto come il male assoluto e, malgrado gli inviti che riceve a darsi allo studio del finlandese che con i suoi diciotto casi è una lingua molto difficile (“ma te sei ancora giovane, non hai neanche sessant’anni, se ci dai dentro prima di morire una bella conversazione in finlandese ci riesci a metterla insieme”), lui ricorda che nel 1999 aveva subìto un incidente automobilistico molto grave nel quale aveva riportato enormi ustioni, al posto della pelle c’era carne viva per cui era stato sottoposto a sette operazioni, riceveva morfina per calmare i dolori acuti ed era stato ricoverato in ospedale per settantasette giorni. Nella testa gli venivano in mente i versi di Boris Pasternak “Vivere una vita non è attraversare un campo” e così conclude “Se io rinuncio al russo, rinuncio a me stesso”…”il finlandese lo studieran poi degli altri, io continuo col russo”. Torna il riferimento a Brodskij e al suo discorso in occasione del ricevimento del Premio Nobel per la letteratura secondo il quale il compito di un uomo, sia egli uno scrittore o un lettore, è quello di vivere una vita propria e non una vita imposta o prescritta dall’esterno in quanto la letteratura è cosa più antica e più duratura di qualsiasi organizzazione sociale e a tal proposito Nori spiega il suo pensiero: “Io, invece che dai vari governi Pentapartito o monocolore che si dice si siano alternati alla guida del paese negli anni della mia adolescenza e della mia giovinezza, io, piuttosto che da loro, sono stato governato da Bulgakov, da Chlebnikov, da Charms, da Mandel’štam, da Blok, da Puškin, da Anna Achmatova, da Lev Tolstòj, da Gogol’, da Dostoevskij, da Victor Erofeev, da Iosif Brodskij, da Ivan Gončarov, e sono stato, a volte, per degli attimi, per dei giorni, per dei mesi, un suddito felice e riconoscente. È possibile, oggi, una cosa del genere? Vediamo”. Ed è da notare quel “che si dice” inserito nel discorso.
Il secondo spettacolo, in prima milanese, si apre con il suono dell’inno nazionale russo e il racconto di Nori comincia da lontano, tocca il periodo in cui si era laureato con una tesi di laurea che aveva per argomento la teoria e la pratica del poeta russo Velimir Chlebnikov per la quale durante la discussione, andata molto bene, gli era stato detto che aveva dato un contributo essenziale alla “russistica italiana”. Con questa premessa era rimasto per un po’ di tempo a vivere nell’attesa di incontrare qualche russista, si era messo a cercarli senza averne mai trovato e, dopo aver trascorso dei pomeriggi “steso sul letto a guardare il soffitto”, un giorno decise di farsi assumere nel cantiere di un metanodotto in Francia. Ma poi si era chiesto che senso aveva se il suo desiderio maggiore era quello di scrivere. Ora, dice “Ho cominciato a scrivere e, sono passati quasi trent’anni, sono ancora qui che rompo i maroni”. Possono essere diverse le motivazione che inducono a scrivere: si scrive per capire quello che pensi, si scrive perché si è ciechi, metaforicamente s’intende, e la scrittura ti indica la strada dove andare.
Qui Nori diventa più intimista perché scende nei dettagli della narrazione degli anni giovanili. La casa dei genitori a Basilicanova, il ricordo della figura del nonno, anarchico comunista che leggeva la rivista Vie nuove e secondo i paesani era anche abbonato alla Pravda, e quella della mamma che conservava gelosamente una scatola di biscotti ora riempita solo da bottoni “C’è tutta la storia della nostra famiglia in quella scatola” gli disse un giorno quando lui la volle scherzosamente prendere in giro. Il suo amore per Parma la cui squadra, insieme alla lingua russa, erano e sono la sua grande passione. E con questi anche il dialetto parmigiano ricco di termini che vanno in profondità delle cose portatori quasi di una forma di pudore tanto che la parola “ti amo” non esiste perché a Parma è sostituita dalla frase “At voj ben”. Racconta che da ragazzo comprava Il Manifesto per come era fatto esteticamente. Stima la disperazione al punto di dichiarare di non toccargliela, arriva al punto di ammettere per paradosso “Ma come sono stato male bene”, bandisce la parola speranza dal suo pensiero apprezzando quanto scritto da Beckett: “La speranza è solo un ciarlatano” e conclude citando i versi danteschi “Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate” che metterebbe sulla porta del Paradiso. Descrive i podcast realizzati e utilizza per questo una voce fuori campo. Si addentra sul tema degli incidenti che capitano tutti i giorni che, se non sono spettacolari e non ne parlano i giornali, diventano quasi una banalità del quotidiano e passano inosservati perché ormai siamo anestetizzati su quello che ci capita intorno. E invece quello che occorre fare è proprio interrogare le cose giornaliere: “Sono 29 anni dal ’96 che non smetto di interrogare le cose di tutti i giorni”. Due volte, racconta, è stato dato per morto dopo i due incidenti in cui era incorso, il più grave dei quali era stato quando era rimasto intrappolato nell’auto che, a seguito di uno scontro, aveva iniziato a bruciare. Nori ringrazia ancora i tre ragazzi che avevano assistito all’incidente e lo avevano soccorso mentre aspettavano l’ambulanza e ora li nomina tutti e tre: Alessandro, Roberto e Amir. Se nel primo spettacolo aveva suonato la tromba qui canta a cappella un pezzo dell’Internazionale che era il brano che aveva insegnato alla figlia Irma quando era ancora piccola e “Era bello il mio ragazzo”, una canzone che parla di un giovane operaio morto a causa della caduta da un impalcatura, un momento tra i più toccanti dello spettacolo.
Racconti e non solo, considerazioni, in alcuni punti quasi proclami, tutti interpretati con arguzia in cui l’umorismo si accompagna a momenti di mestizia quali sono gli episodi meno allegri. Sono questi gli elementi preziosi che Nori affronta e che regala agli spettatori che lo hanno premiato con convinti applausi.
Visti nei giorni 19 e 22 novembre 2025
(Carlo Tomeo)
Teatro Menotti
8 | 20 novembre
“La libertà. Primo episodio” e “La disperazione. Secondo episodio” di e con Paolo Nori
Musiche di Alessandro Nidi, eseguite dal vivo da Alessandro Nidi, Andrea Coruzzi, Filippo Nidi
Luci di Luca Bronzo – Foto A. Morgillo
A cura di Paola Donati – Produzione Fondazione Teatro Due, Parma
