“Lungo viaggio verso la notte” al Piccolo Teatro Strehler – Recensione

Il dramma “Lungo viaggio verso la notte”, scritto tra il 1941 e il 1942, è considerato tra le opere più autobiografiche di O’Neill e per questo motivo, probabilmente per una forma di pudore, l’autore negò il consenso alla messa in scena che avvenne solo dopo la sua morte. La prima rappresentazione risale infatti al febbraio 1956 al Royal Dramatic Theatre di Stoccolma e solo nove mesi dopo approdò a Broadway presso l’Helen Hayes Theatre. La prima rappresentazione italiana avvenne un anno dopo al Teatro Valle di Roma a cura della Compagnia di Renzo Ricci. A quella ne seguirono diverse altre, essendo, a partire da allora e fino ai nostri anni, uno dei drammi di O’Neill più rappresentati in diversi teatri italiani e stranieri e l’edizione di Gabriele Lavia, presente in questi giorni al Piccolo Teatro Strehler, ha debuttato al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti di Spoleto lo scorso 18 febbraio di quest’anno.

Il dramma è ambientato agli inizi del secolo scorso in Connecticut nell’abitazione della famiglia Tyrone costituita dal capofamiglia James (Gabriele Lavia), un attore celebre che deve la sua fama all’interpretazione del protagonista di una commedia mediocre che però raccoglie consensi di pubblico da diversi anni, e da sua moglie Mary (Federica Di Martino), una donna ansiosa che si scoprirà essere dipendente da morfina. Insieme ai due abitano i figli Jamie, il primogenito alcoolizzato (Jacopo Venturiero), e Edmund (Ian Gualdani) al quale, dopo diverse visite mediche, verrà diagnosticata la tubercolosi. Nell’arco di un’intera giornata, è tale il tempo di svolgimento della vicenda, la famiglia dovrà fare i conti con i propri malesseri e inquietudini passando da un’apparente serenità del mattino ai momenti più dolorosi di fine serata quando i nodi più intricati verranno al pettine e i quattro componenti, pur amandosi, finiranno per buttarsi in faccia le cose peggiori. Essi sono esemplari di una famiglia disfunzionale che non riesce a trovare un equilibrio se non nella finzione, salvo poi essere preda dell’ira con un susseguirsi di accuse, minacce, parole di disprezzo subito ritrattate. E così l’amore paterno esiste anche se infarcito da una forma d’odio. Più benevolo quello della madre in particolare verso il figlio minore malato. Così l’amore fraterno è fatto di complicità anche se il maggiore in un momento di lucidità durante un’ubriacatura (“in vino veritas”) mette in guardia il minore e gli confesserà di essere sempre stato invidioso di lui, “Il cocco di mamma , il beniamino di papà” e per questo, anche se lo vorrebbe vedere riuscire nella vita “come nessun altro al mondo”, farà di tutto per farlo fallire, pur ammettendo di volergli bene più di quanto lo odi. Il padre deluso dalla vita, avrebbe voluto recitare i classici del teatro, come Shakespeare e Sofocle (e nel corso della giornata declama passaggi dell’Amleto e del Giulio Cesare del primo e dell’Edipo Re del secondo) mentre è rimasto “prigioniero” di un ordinario personaggio da commedia che è servito solo a renderlo famoso e ammirato specialmente dalle donne. Ora affoga i rimpianti nel whisky mentre teme di finire in ristrettezze economiche e lesina sul consumo ritenuto eccessivo dell’elettricità. Il figlio Jamie lo accusa di avarizia perché, invece di affidarsi a medici veramente bravi per la cura del fratello malato, preferisce ricorrere al limitato dottore di famiglia soltanto perché questi presenta una parcella bassa. Mary si sforza di mantenere una sua compostezza per non far capire il bisogno di ricorrere alla morfina nei momenti di maggiore necessità ma è tradita da una serie di piccole e ripetute manifestazioni nervose come un’eccessiva cura della propria acconciatura, dal suo continuo mettersi a cercare gli occhiali, dal fregarsi i dorsi delle mani. Vive con il senso di colpa per aver fatto nascere Edmund come sostituto di un figlio precedente, Eugene, morto a soli due anni perché in quel periodo lei lo portava con sé quando seguiva il marito nelle tournée teatrali. E intanto è attratta dalla nebbia che non permette neanche di vedere la strada e, cosa che desidera, le da la sensazione di essere isolata dall’esterno: “Potrebbe passare tutta la gente che c’è al mondo e io non la vedrei nemmeno. Vorrei che fosse sempre così”.

La rappresentazione del dramma di O’Neil per la regia di Gabriele Lavia è nell’adattamento di Chiara De Marchi che segue la traduzione di Bruno Fonzi della storica edizione Einaudi del 24 novembre 1962. La composizione dei quattro atti originali è suddivisa in due parti con intervallo. L’ambiente di casa Tyrone è arredato con vari elementi (divano, poltrone, pianoforte sulla destra, tavolini vari, uno in particolare depositario di bottiglie di whisky parecchio versato, oltre che essere utilizzato anche altrimenti. Sulla destra due grandi librerie alte fino al soffitto che con la loro imponenza sembrano soffocare i personaggi e ridurne la statura. Al centro delle stesse una scala che conduce al secondo piano dove si trovano le camere da letto, in particolare quella degli ospiti molto significativa e spesso chiamata in causa. Parte predominante della scenografia (dovuta a Alessandro Camera) è l’enorme, espressiva inferriata che si estende per tutto il proscenio e che trova riscontro nel fondale: la sua struttura è metafora di un’enorme gabbia dentro la quale sono intrappolati i Tyrone con le loro angosce e il loro mal di vivere che sembra non trovare soluzione.

Personaggi lacerati dai rimpianti come James Tyrone e da un’inadeguatezza come i due figli, in particolare Jamie, che cercano tutti e tre di trovare inutile conforto nell’alcool, e come Mary che, dilaniata dal dolore e dai sensi di colpa, si rifugia nella morfina: tutti che suscitano una profonda, fondamentale pena, che Lavia con la sua regia sa mettere in primo piano rendendola toccante fino a smuovere la sensibilità dello spettatore che si rende partecipe del dramma. All’intelligente regia Lavia aggiunge una recitazione prestigiosa, di alto livello, che sa passare dai toni caldi a quelli bruschi che accompagnano la violenza verbale propri del personaggio interpretato. Accanto a lui una strepitosa Federica Di Martino che sa toccare con padronanza le varie sfumature del personaggio di Mary: dolce, sognante, ma anche rabbiosa e sfuggente. Jacopo Venturiero e Ian Gualdani sono eclettici nei panni dei figli. Molto brava Beatrice Ceccherini nel ruolo minore di Cathleen, la cameriera, unico personaggio solare che vive nella casa.

La prima rappresentazione milanese del 18 marzo ha ricevuto molti applausi con diverse chiamate in proscenio. Repliche fino al 30 marzo. In calce all’articolo le INFO riportanti i crediti e le modalità per acquisto biglietti.

Visto il giorno 18 marzo 2025

(Carlo Tomeo)

Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill – regia Gabriele Lavia – traduzione Bruno Fonzi – adattamento Chiara De Marchi – scene Alessandro Camera – costumi Andrea Viotti – musiche Andrea Nicolini – luci Giuseppe Filipponio – suono Riccardo Benassi – con Gabriele LaviaFederica Di Martino e con Jacopo VenturieroIan GualdaniBeatrice Ceccherini – produzione EffimeraTeatro della Toscana

Piccolo Teatro Strehler (Largo Greppi – M2 Lanza), dal 18 al 30 marzo 2025

Orari: martedì, giovedì e sabato, ore 19.30; mercoledì e venerdì, ore 20.30; domenica, ore 16. Lunedì riposo. Durata: 165 minuti incluso un intervallo – Prezzi: platea 33 euro, balconata 26 euro

Informazioni e prenotazioni 02.21126116 – www.piccoloteatro.org

Categorie RECENSIONI

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